Youth – La giovinezza

Youth-La giovinezza, film scritto e diretto da Paolo Sorrentino, presentato in concorso al 68mo Festival di Cannes, è una realizzazione certo pregevole, ulteriore connotazione di un particolare linguaggio filmico, verrebbe da scrivere primigenio per la sua nitidezza visiva e rappresentativa, il quale ha, almeno a mio avviso, la letterarietà quale sua fonte primaria.
Trova poi sfogo in una vivida visualizzazione offerta da una scomposizione delle immagini spesso ardita, nella consueta alternanza fra carrellate e primi piani di persone, luoghi, oggetti, per quanto confluenti all’interno di una ricercata simmetria e del tutto coordinate con l’incedere musicale (David Lang). Opera dall’impatto più semplice e diretto, per stessa ammissione dell’autore, rispetto alla pellicola precedente (La grande bellezza, 2013), Youth-La giovinezza riesce a delineare con toni affabulanti ed onirici, a tratti surreali, ma sempre all’interno di una circoscritta realtà, una sincera teatralizzazione relativa al sentore dello scorrere temporale, commossa e commovente, lievemente soffusa di una certa ironia; la giovinezza del titolo lungo il percorso narrativo giunge ad ammantarsi di una valenza metaforica, idonea a soppiantarne il significato limitatamente anagrafico.

Michael Caine e Harvey Keitel (foto di Gianni Fiorito)

Due amici ottantenni, Fred Ballinger (Michael Caine) e Mick Boyle (Harvey Keitel), consuoceri (la figlia del primo, Lena, Rachel Weisz, è sposata col figlio del secondo), stanno trascorrendo un periodo di vacanza in un complesso alberghiero- termale situato presso le Alpi svizzere. L’uno è un direttore d’orchestra ormai ritiratosi dalle scene, ha messo da parte qualsiasi entusiasmo esistenziale, lasciando che indolenza e disillusione ne prendano il posto, celando le emozioni dietro il velo del sarcasmo e del cinismo, tanto da rifiutare la proposta esternata da un portavoce della regina Elisabetta d’Inghilterra, dirigere un ultimo concerto a Buckingam Palace, che abbia come tema le sue celebri Simple Songs. L’altro è invece un regista cinematografico tuttora in fervida attività, al lavoro con un gruppo di giovani sceneggiatori su quello che sarà il suo “film testamento”. Sullo sfondo un variegato microcosmo popolato da vari personaggi, il personale e gli ospiti dell’albergo, gente comune o famosa, come, in tale ultimo caso, Jimmy Tree (Paul Dano), un giovane attore alla ricerca di un ruolo che lo liberi dall’interpretazione cui deve comunque la fama (un robot in un film d’intrattenimento), un famoso ex calciatore argentino ormai quasi irriconoscibile nel suo aver voluto agevolare il naturale passaggio del tempo, o una scaltra Miss Universo (Madalina Ghenea)…

Paul Dano, Keitel e Caine

Youth-La giovinezza trae la sua forza trascinante in primo luogo dallo stile registico sopra descritto: l’alternanza apparentemente brusca delle immagini si sostanzia in un’ammaliante e suggestiva resa figurativa (sempre eccellente il lavoro sulla fotografia di Luca Bigazzi), ed offre una rappresentazione, ora intuibile ora manifesta (la sequenza dell’incubo relativo al video della popstar Paloma Faith), dei discorsi fra i protagonisti, incentrati su vari tematiche: la confluenza fra arte e vita, divergenze sull’importanza o meno delle emozioni, incomprensioni tra genitori e figli scaturenti tanto dalla mancanza di ricordi condivisi quanto da una necessariamente diversa visione/proiezione vitale. In secondo luogo è certo fondamentale il solido impalco attoriale, idoneo a conferire pregnante consistenza ai dialoghi, con un superlativo Caine a dirigere il fluire narrativo in forma di partitura musicale, al cui interno la nota dominante, alla luce di una conclamata arrendevolezza a nostalgiche rimembranze, è la ricercata sensazione che sia la vita a doversi rapportare al nostro modo d’essere, qualificandosi essenzialmente come uno stato mentale.

Rachel Weisz (foto di Gianni Fiorito)

A ricordare che “siamo tutti comparse” interviene l’amico Mick (Keitel in stato di grazia per naturalezza e bontà recitativa), ormai giunto ai ferri corti con una creatività fortemente ed egoisticamente idealizzata, messa al servizio del proprio bisogno di sentirsi vivo, ma ormai esauritasi. E’ quanto gli urla in faccia la sua attrice feticcio Brenda Morel (una bravissima, spietata, Jane Fonda, sorta di Norma Desmond rinsavita, lucida e determinata nell’abbracciare il nuovo che avanza e non incamminarsi precocemente verso il viale del tramonto), nel comunicargli il rifiuto di prendere parte al suo ultimo lavoro, trovando più stimolante prendere parte ad una produzione televisiva, in particolare considerandone la sicura riuscita.
Un fallimento, esistenziale e professionale, che sarà sublimato nella soluzione trovata infine riguardo quel finale a lungo ricercato per il suo film, il quale, paradossalmente, darà un senso di compiutezza a quanto, in apparenza, resterà irrealizzato.

Solo un’emozione confluente verso la condivisione di una ritrovata capacità di stupirsi di fronte a quanto di bello e buono possa ancora esservi in questo mondo sempre più disumanizzato e grottescamente deformato nella sua primordiale essenza, soppiantando malcelati rimpianti e distorte concezioni esistenziali, potrà apportare inedita e vivida linfa vitale. Una volta che si sarà preso coscienza della nostra vulnerabilità riguardo tutti gli eventi che si sono succeduti nel corso del personale cammino di vita, inframmezzato dalle note, ora lievi ora aspre, sprigionate da sentimenti quali l’amore e l’amicizia, fra rimpianti e soddisfazioni, la giovinezza sarà allora costituita da un ritrovato vigore una volta che ci si sarà ripresi dallo stupore, dal retrogusto fanciullesco, di esserci ricongiunti la nostra più intima essenza, pur continuando a cavalcare la sensazione di non sentirci ancora all’altezza della situazione, consapevoli che mai potremmo esserlo.
Così, egualmente, Jimmy, l’attore in cerca di una sua identità, troverà quest’ultima una volta compreso come sia importante comunicare al pubblico non tanto l’orrore (del disagio di vivere, della continua fuga da se stessi, dei stanchi rituali sospesi fra noia e quotidianità) ma il desiderio (di vivere in primo luogo, e conferire al riguardo congrua empatia nei confronti col prossimo).

Paolo Sorrentino

Sorrentino mette in scena nuovamente “un’ umana commedia”, come nel citato La grande bellezza, ma qui vi è un solo girone, una sorta di limbo esistenziale ove soggiornano “coloro che stan sospesi”, elaborando il proprio vissuto e quel che resta ancora da comprendervi, osservando ogni mutazione o deformità, fisica e caratteriale, nelle persone che girano intorno a loro, in attesa di “riveder le stelle”, ovvero tornare ad affrontare la quotidianità, con le mutazioni temporali atte a riunirsi in un unico afflato.
A scandire queste ultime sarà la gioia di aver condiviso sempre e soltanto le più belle sensazioni che la vita potesse offrire, quelle idonee a rendere emozionale e meno gravosa la parte che comunque ognuno di noi è chiamato a recitare, tenute insieme dalla forza della memoria.
Miscelando ingenuità pop e ricerca formale, Sorrentino ci regala un’accorata riflessione, leggera e al contempo profonda, sull’esistenza e sul significato da attribuirle, il quale potrà mutare a seconda di ogni singolo individuo e delle prove che si troverà ad affrontare, tanto da poter giungere anche alla conclusione di una sua assenza, mentre scorre all’interno della clessidra del tempo l’ultimo granello di sabbia; dopotutto, “La differenza tra la vita e un copione cinematografico è che il copione deve avere un senso” (Humphrey Bogart).


Archiviato in:Cinema, Cultura, Pensieri e parole Tagged: 68mo Festival di Cannes, David Lang, Harvey Keitel, Humphrey Bogart, Jane Fonda, Luca Bigazzi, Madalina Ghenea, Michael Caine, Paolo Sorrentino, Paul Dano, Rachel Weisz, Youth - La giovinezza
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