Ho sempre tenuto l’inverno di poco conto. Dopo Natale il mio obiettivo primario era raggiungere la primavera nel modo più veloce e indolore possibile, evitando tempeste di neve, vento tagliente e notti troppo lunghe. Ogni stagione aveva le sue buone ragioni per essere apprezzata: una nuova vita tinta di verde delicato in primavera, giornate spensierate e infinite in estate, le foglie che si accendono di colore, le prime sciarpe, la zucca in autunno. L’inverno aveva il Natale, cosa non da poco, ma dopo quello, tre mesi di attesa impaziente per la bella stagione.
Quest’anno mi sto invece godendo l’inverno. Abbiamo avuto prima giorni strani, tiepidi e soleggiati, poi giorni di pioggia uggiosi e tranquilli, e ora questo freddo pungente che si è alleato con il cielo terso. Continuo a preparare tazze su tazze di tè bollente, per stringerle tra le mani mentre lavoro. La campagna in questi giorni lascia senza parole, brilla di colori carichi nella luce del pomeriggio. Domenica, nonostante il freddo, mi sono coperta bene e sono uscita, sotto strati di lana, cappello, sciarpa e guanti. Passeggiare dentro a questa luce pulisce la mente, e quanto ne avevo bisogno!
Finalmente ci stiamo avvicinando alla data in cui piano piano il laboratorio diventerà realtà, siamo sommersi dagli ultimi preventivi, dalle mazzette di colori per il pavimento e per il piano della cucina. Sulla cucina non si discute, per fortuna fin dall’inizio eravamo entrambi sicuri che sarebbe stata bianca. Quello che più mi elettrizza è scegliere il pavimento, sapendo che su quel pavimento camminerò ogni giorno, ci cucinerò, ci giocherò con Noa e ci fotograferò.
Nel frattempo, siamo anche alla seconda settimana della pianificazione del menu giornaliero. Pensavo che fosse un’abitudine da maniaci del controllo, ma mi sono resa conto, invece, che mi è necessaria per sopravvivere al caos giornaliero. Tra le mille decisioni da prendere, i tempi stretti per la lavorazione del libro, le consegne e i preventivi, so ogni giorno cosa andrò a mangiare, e questa è una decisione in meno che mi aiuta. Sono diminuiti i piatti pasta fatti all’ultimo minuto in preda alla fame a metà pomeriggio perché mi ero dimenticata il pranzo e i take-away dalla premiata ditta mamma e nonna. L’obiettivo ultimo di questa pianificazione settimanale del menu è quella di cucinare tutte le ricette del libro in tempo, mangiare stagionale e locale controllando la spesa finale e soprattutto produrre due pasti al giorno che siamo sani, equilibrati e che nel contempo non richiedano troppo impegno. La panificazione è tutto. Siamo al giorno dieci, e per ora tutto va bene…
Ogni tanto, però, sento di aver bisogno di uno zabaione per tirarmi su, per affrontare il freddo che in una casa di campagna esposta ai quattro venti è tutt’altro che insignificante, per non cadere sotto al flusso costante delle scadenze e per non perdere la prospettiva del sogno davanti ai preventivi di spesa che si accumulano sulla scrivania.
Lo zabaione, che alchimia: una spuma di tuorli densa e vellutata, ottenuta montando i tuorli con zucchero e vino dolce a bagno maria, per incorporare aria. Servilo caldo o freddo, ma in entrambi i modi sarà una carica di pura energia e piacere.
Lo zabaione è semplice, ma non scontato. Servono solo tre ingredienti. Lo zabaione, però, ti richiederà un’attenzione assoluta mentre monterai le uova a bagno maria, ma ti ricompenserà con un sottile stordimento felice, provocato dall’alcol che evapora sotto il tuo naso. In quei gesti ripetuti con amore e devozione da generazioni sta tutta la magia di un’alchimia che ogni volta si realizza davanti ai tuoi occhi.
Lo zabaione è una ricetta antica che ovviamente ha molteplici possibili origini che affondano nella leggenda e nel colore popolare, una più affascinante dell’altra. Per qualcuno lo zabaione ha un’origine araba, che collocherebbe la sua nascita in Sicilia. Altri pensano che la sua invenzione sia dovuta a un monaco francescano, San Pasquale de Baylon, che visse a Torino nel XVI secolo. Pare che San Baylon, oggi santo protettore di chef e pasticcieri, consigliasse questa bevanda corroborante alle penitenti che, in confessione, si lamentavano dello scarso vigore dei propri mariti.
Emiliano Giovanni Baglioni, conosciuto come Zvan Bajòun, è il secondo padre putativo dello zabaione. Baglioni era un capitano di ventura che, alla fine del XV secolo, si trovò nei pressi di Reggio Emilia. Lì mandò i suoi soldati a razziare le campagne per nutrire l’esercito, ma gli unici ingredienti sui quali riuscirono a metter le mani erano uova, vino e zucchero. Zvan Bajòun non si perse d’animo, fece mescolare uova, zucchero e vino e fece servire ai suoi soldati questa zuppa insolita, che apparentemente ebbe un’inaspettato successo.
Fuori dalla leggenda, lo zabaione era conosciuto anche dai Gonzaga a Mantova, a Venezia e perfino alla corte di Caterina de’ Medici, dove una bevanda del tutto simile allo zabaione veniva servita fredda.
Il nome zabaione appare per le prima volta nel libro di cucina del famoso chef rinascimentale Bartolomeo Scappi, Opera, nel 1570. Il suo zabaione è fatto da tuorli freschi, vino moscato e cannella, arricchito da un brodo di pollo leggero e burro. La quintessenza del Rinascimento a tavola. Lo zabaione diviene poi completamente dolce nel XVII secolo con il Latini, che presenta una ricetta con pistacchi, burro, vino forte e cannella nel suo libro Lo scalco moderno.
Lo zabaione ha una storia così lunga e affascinante perché è fatto con ingredienti che erano facilmente a disposizione di quasi tutte le famiglie. Fare uno zabaione è nello stesso tempo rilassante e gratificante, ma il piacere che si prova nel farlo non si avvicina nemmeno alla soddisfazione di condividerlo con qualcuno che ami in una fredda giornata d’inverno.
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